Cagliari, olio su tela

Se sapessi dipingere, mi armerei di pennelli e colori. Sceglierei ogni giorno un luogo diverso in cui fermarmi, poi, una volta seduta, comincerei a tratteggiare delle linee sulla tela.

Dipingerei le strade lastricate, con una striscia di tondi sampietrini al centro, strette vie serpeggianti verso il mare e verso il cielo, delimitate da antiche case dall’intonaco sbucciato, qualcuna così malconcia da esporre, come ferite aperte, mattoni e pietre consunte dal tempo.

Dipingerei la luce che arranca fra le strade, che fatica ad illuminare i passanti, sempre col naso all’insù, che si entusiasmano per i balconi protesi sulla strada, strabordanti di fiori e di lenzuola appese, sbattute dal vento come bandiere.

Dipingerei le piazze pendenti inondate di sole, in cui qualcuno lancia una palla al suo cane e due bambini sfrecciano su un monopattino, facendo a gara a chi ride più forte, mentre la Cattedrale proietta la sua ombra soffice, con la facciata triangolare, come il tetto delle casette nei disegni infantili, sulle scalette di pietra, sbocconcellate dall’erosione di migliaia di passi.

Dipingerei un cielo terso di un azzurro intenso, terrazze panoramiche dalle quali indicare i luoghi amati, conosciuti, o ancora da esplorare. Lì c’è il mare, le saline, quello è il porto, quello il cimitero, ma quel colle qual è? Macchie di alberi, soffici come verdi cuscini, dense di foglie frustate dal maestrale.

Dipingerei l’aria, che sa di pulito, odora come le stagioni e profuma di mare, di fiori, o di buon cibo, che ti viene servito sui tavolini in bilico sui lastroni del corso. Dipingerei i suoni di una città brulicante di vita e silenziosa. Chiacchiere e lamentele assorbite dalle mura, pochi clacson e sporadiche sirene, insulti e saluti da un lato all’altro della via. Mani che si agitano, per maledire o per accogliere.

Dipingerei una città a colori, dove mare e cielo si appropriano di tutte le sfumature di blu, azzurro, indaco. I parchi, le colline, i balconcini si contendono tutta la gamma di verdi, giada e smeraldo. Infine colmerei gli spazi vuoti col bianco calcare delle mura di Castello, il quartiere abbarbicato su uno dei colli che domina la città. Userei rosa, arancio e giallo per tingere le facciate delle case. Il grigio per le strade ed il rosso per i tramonti infuocati che bruciano il cielo.

Poi abbasserei i pennelli, li riporrei nel loro astuccio, lascerei che la tela si asciughi e che la città si incrosti per sempre, immobile come in una fotografia, un frammento di ricordo. Ed io, guardandola, saprei di averla descritta nel modo migliore, senza usare parole.

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